IL TRANSITO DI RAHELL
DEBUTTA LA RUBRICA DI CINEMA E SPETTACOLI “LIEVITI FILMOGENI” CON LA RECENSIONE DI UN DOCUMENTARIO SUI RIFUGIATI POLITICI IN ITALIA.
TERRA DI TRANSITO
un film di Paolo Martino
con Rahell Ali Mohammd
prodotto da A buon diritto con Istituto Luce
Tutto ciò che è fuori posto mi inquieta irresistibilmente, e inquietandomi mi attira. E Roma in questo senso è fonte inesauribile di ispirazione.
Qualche mese fa, mi sono trovato a casa di un’amica a prendere un caffè e durante questo pomeriggio ho incontrato Rahell, un curdo iracheno di passaggio, ospite di una delle inquiline della casa.
Rahell è magro e spettinato. È un rifugiato politico. Nato in Iraq, è fuggito in Siria con la sua famiglia quando era piccolo e lì ha condotto una vita normale, perfettamente integrata, finché non è stato minacciato dalla polizia per la sua passione per la musica metal (aveva un negozio di dischi e di gadget molto famoso a Damasco). Da qui la decisione di scappare, seguendo uno degli itinerari più battuti dai profughi siriani: prima la Turchia, poi la Grecia, e infine l’Italia, appeso a testa in giù alla pancia di un camion. Ha impiegato più di un anno ad arrivare in Italia, mi racconta in quel lungo pomeriggio di sigarette e caffè e molti silenzi.
Parliamo in italiano, perché Rahell è in Italia da molti mesi, e resterà qua ancora per molto tempo, anche se buona parte della sua famiglia adesso vive in Svezia, e vive bene.
Poi gli squilla il cellulare, parla in arabo, veloce e nervoso. Deve andare: un conoscente siriano ha bisogno di un interprete al campo della Romanina, una delle zone della città dove si raccolgono i rifugiati.
Ho presto relegato questo incontro in un angolo della memoria, finché un mesetto fa non mi chiama Chiara, l’amica di quel caffè pomeridiano, per invitarmi al cinema: c’è il film di Rahell. Lo fanno al Nuovo Cinema Aquila, che fa una coraggiosissima programmazione indipendente ed è una delle poche sale romane che proietta documentari.
Terra di transito è la storia di Rahell, e di quasi tutti i rifugiati politici che, loro malgrado, arrivano in Europa attraverso l’Italia.
È diretto da Paolo Martino, un giovane reporter che si occupa da anni di immigrazione e di asilo politico. Quella sera è presente in sala, e ho modo di fare due chiacchiere con lui, dopo la proiezione del film.
Il più grande problema dei richiedenti asilo, in Europa, è il Regolamento di Dublino, una legge scellerata che servirebbe a regolare i flussi immigratori verso l’Europa ma di fatto impedisce ai rifugiati di spostarsi dal primo Paese in cui vengono accolti.
Nel film Rahell fa parlare molti di loro, al campo della Romanina, alla stazione Termini oppure a Ostiense, e tutti dicono di non avere mai avuto alcuna intenzione di fermarsi in Italia. Perché in Italia si sta male, “l’Italia è la discarica d’Europa” dice a Rahell un ragazzo siriano che da anni cerca di raggiungere la sua famiglia in Germania e che viene puntualmente rispedito in Italia dalle autorità tedesche.
La storia di Rahell è analoga: lui è entrato in Europa dalla Grecia, ma ha lasciato le sue impronte digitali qua in Italia, e questo lo lega indissolubilmente al nostro Paese, e a nulla vale il fatto che metà della sua famiglia lo aspetti, perfettamente integrata, in Svezia: lui non è libero di spostarsi dove crede, è obbligato a vivere in Italia, solo e isolato.
Non può esserci altro destino per i rifugiati politici che hanno la sfortuna di capitare qua, perché non è prevista per loro nessuna politica di accoglienza. Di loro si occupano, prevalentemente, associazioni di generosi volontari che forniscono supporti legali, medici e logistici.
Le immagini più forti del film sono di sicuro quelle girate al campo della Romanina, area a ridosso del Raccordo, a sud della città. In quel luogo sono stati allestiti dei tendoni e là i rifugiati possono andare a dormire, dopo aver passato la giornata a vagabondare per la città. La situazione all’interno è complessa, sia dal punto di vista sanitario che umano. Non è possibile nemmeno immaginare di costruire un’esistenza a partire da questi presupposti: si deve fuggire. E l’unico modo di farlo è far finta di non essere mai stati a Roma, mai stati in Italia. Sperare che non ti prendano mai le impronte digitali.
Nella seconda parte del film Rahell riesce ad andare a far visita ai suoi parenti in Svezia, da turista.
È durante un sontuoso pranzo familiare, consumato con allegria, che Martino spia la famiglia parzialmente riunita, dopo anni, a raccontarsi gli snodi delle loro vite: le sfortune e le difficoltà di Rahell appaiono assurde ai suoi parenti accolti con civiltà dal paese scandinavo.
Gli amici riuniti al bar ridono di gusto nell’apprendere che in Italia non è previsto alcun tipo di sostegno economico per i rifugiati, mentre in Svezia essi ricevono un assegno mensile, se non lavorano, come tutti.
L’Italia è, appunto, una terra di transito per i rifugiati politici, perché vivere qua non è solo difficile (lo è per tutti, in qualche modo) ma è proprio impossibile. La critica che muoverei all’opera di Martino, che sotto il profilo estetico è ben studiata e molto efficace, è che sembra non porre con la dovuta forza la domanda fondamentale: quali politiche gli Stati europei – e non solo l’Italia – dovrebbero attuare per permettere a queste persone di condurre una vita dignitosa, allontanandole dalla strada, dalla facile soluzione della criminalità e dello spaccio, permettendo loro di ricongiungersi con le loro famiglie lontane?
È molto semplice guardare con fastidio e sospetto i tanti immigrati, spesso rifugiati, che occupano gli angoli delle strade di Roma, preoccuparsi della nostra incolumità, chiedere con stizza che la politica ci liberi di questo problema che spesso sembra più di ordine estetico che sociale.
Dovremmo forse chiederci che ruolo abbiamo noi in tutto questo, quanto di sbagliato si è fatto in questi anni per favorire l’integrazione, preferendo forse portare l’attenzione sulla chiusura e l’incomprensione.
Rahell ora vive a in Puglia, è un rifugiato politico ma non ha diritti politici, sa che non potrà più tornare in Siria dai suoi genitori, né raggiungere i suoi parenti in Svezia prima di dieci anni, quando potrà richiedere la cittadinanza italiana. Per il momento studia per diplomarsi e fa il mediatore culturale, per impedire che altri come lui scelgano la strada, lo spaccio, la disumanità.
Quello su cui dovremmo interrogarci dovrebbe essere questo: perché Rahell? Perché non si impegna la politica a guidare lontano dalla disperazione chi ha bisogno?
Io, in un certo senso, sono un migrante. Lo dico sempre. Chi mi conosce è pure sicuramente stanco di sentirmi ripetere questo ritornello. Ma io sono un fuori posto, ed è per questo che ho un profondo rispetto per chi è stato costretto a scappare via dalla sua casa per cercare qualcosa di meglio. E trovo che sia profondamente ingiusto e crudele non usare per lo meno il metro della comprensione con chi suo malgrado ci vive accanto e cerca in tutti i modi di sopravvivere e di restare umano.
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