Elogio della bellezza alloctona: Paolo Angeli e Gianfranco Manca, artisti sulla terra.

28 giugno 2013  |  di Antonio Canu

È come se John Cage, Harry Partch e George Melies avessero costruito insieme lo strumento musicale dei loro sogni. Magari con la consulenza di Fred Frith, di Giovanni Scanu e l’esperienza di cordami di bordo di un vecchio pescatore. Questo è la chitarra sarda preparata, inventata, costruita, modificata e suonata da Paolo Angeli. Musicista-compositore e strumento che insieme – come ho già detto e ripeto – dovrebbero essere, al di la delle meraviglie musicali che producono, patrimonio dell’umanità.
Un musicista compositore, Paolo Angeli, la cui splendida vicenda artistica dovremmo deciderci a raccontare su Taribari in un articolo monografico nel quale analizzare tutti i suoi splendidi dischi. Qui mi preme ricordare, perché funzionale a quanto dirò del suo ultimo lavoro “Sale Quanto Basta”, l’adolescenza rockettara da batterista e la musica sarda tradizionale scoperta a Bologna durante i suoi studi di musicologia (meraviglioso a tal proposito il suo libro frutto del lavoro di ricerca sul canto in re); i nove anni “a bottega” con Giovanni Scanu, uno degli ultimi grandi interpreti della chitarra sarda tradizionale; l’incontro con l’improvvisazione, Fred Frith e l’avanguardia e lo straordinario rispetto e considerazione che circonda Paolo Angeli, da un capo all’altro del mondo, negli ambienti della musica più irregolare e avant.
Una chitarra-orchestra, superbo artigianato che si fa arte, che è al contempo violoncello, sitar, oud, polimorfo strumento a percussione, chitarra sarda tradizionale brutalizzata ed esaltata da mollofoni, eliche e pistoni, corde trasversali, pedali individuali per ogni corda e martelletti. Un meraviglioso oggetto steam-punk mediterraneo che ha fatto innamorare Pat Metheney tanto da spingerlo a chiederne a Paolo Angeli uno uguale dopo averlo visto suonarlo dal vivo (per questo, prima di ascoltare l’ultimo e i precedenti cd di Paolo Angeli, consiglio un giro sul sito www.paoloangeli.it nella sezione “The Guitar” per prendere confidenza con questo strumento delle meraviglie e godere al meglio degli ascolti).
E ora “Sale Quanto Basta”, il nuovo CD uscito da qualche settimana, inciso nel meraviglioso – per dotazioni tecniche e collocazione ambientale tra graniti, alberi secolari e macchia mediterranea di mirto ed elicriso – studio Casagliana di Raffaele Musio, in 5 ore in presa diretta e senza sovraincisioni in completa solitudine. Anche se potreste non crederci ascoltandolo.
Ogni corda della chitarra infatti ha un output individuale e sono state perciò utilizzate 21 tracce pur trattandosi di un CD in “Solo”. Così che, nello stesso brano e nello stesso tempo, la chitarra è una ma sembrano due, tre, cinque. Le corde intrappolate da fascette di plastica da elettricista riverberano ovattate, trillano pizzicate da mollettine metalliche, passano dalla melodia al rumore prima acustiche e poi violate da distorsore e octaver. Durante l’esecuzione, in tempo reale, Paolo scorda e riaccorda la chitarra mentre i suoi piedi nudi schiacciano, sfregano e percuotono buste di plastica e di carta e fogli di giornale amplificati da microfoni a condensatore. E questa volta però, spesso, la chitarra emerge anche nitida e riconoscibile come mai prima, facendo di “Sale Quanto Basta” il suo disco più “classicamente” (si fa per dire) chitarristico di sempre.

“Sale quanto basta” è un disco che nasce faccia al mare, al mare Mediterraneo. Un disco che del mar Mediterraneo ha quell’odore di quando, umido e quasi unto, soffia il levante. Baska, maccaia, afa, caldu ‘e nues. E quel vento appiccicoso che sembra trasportare profumo e suoni di Grecia e Turchia, medio oriente e nord Africa, Sardegna e Spagna. Musica di faccia al mare dunque, ma con alle spalle una città multietnica, viva e vitale come Barcellona (dove Paolo Angeli vive da sette anni) che tutti quegli odori e quei suoni se li porta in pancia, nelle viscere delle sue vie. E li mischia col suono gitano del flamenco e con il ritmo di una metropoli moderna in continuo mutamento creativo.
Tutto questo, tutti questi mondi – Asia, Africa, Europa – si affacciano insieme fin da “Baska”, il brano iniziale, e riemergono in continuazione in “A Levante” e poi nel “Satiro Danzante”. Un suono strisciante che via via si scalda di crescendo intensi, prima armonici e poi rumorosi, nuovamente si dirada e decade, rallenta e lascia spazi vuoti, riparte impetuoso come un’onda. Ha l’odore acre e salmastro di cime di bordo che viene spazzato, diluito e ripulito dalla brezza di sud-est.

Non c’è un brano in più in tutto “Sale q.b.”, nessuno che sia meno che indispensabile. Ma due racchiudono l’essenza stessa dell’intero lavoro: “Mascaratu” e “Primavera araba”.
Una cavalcata post-rock su ritmi zoppi su cui predomina il 5/8, così Paolo definisce “Mascaratu”, a sintetizzare la gioia e la dinamica delle giornate d’autunno in Sardegna quando la raccolta dei porcini scatena in famiglia la competizione alla ricerca del fungo piu bello. Un brano con una apertura melodica magica che mi ha ricordato uno dei passaggi piu lirici del Kholn Concert di Keith Jarret e una gioiosa corsa a perdifiato sul crinale in salita di una collina erbosa. Una pausa in vetta ad ammirare il paesaggio, alberi e arbusti che escludono solo in parte la vista del mare. Un respiro e poi giù ancora di corsa sul crinale in discesa, ruzzolando, cadendo e rialzandosi finendo sdraiati a pancia in su tra l’erba alla base della collina, sul limitare del bosco, le bracia larghe e gli occhi al cielo, mentre nel brano torna la melodia iniziale, rallentata e struggente. Le eliche montate sulla chitarra-orchestra friniscono sul cantino e le corde trasversali, la velocita scema sul decrescendo finale col rallentare del fiatone dopo la corsa e, ancora sdraiati, ci arriva l’odore del sottobosco che non riesce nè vuole nascondere l’odore del mare che gli sta dietro, che non vediamo ancora ma c’è.
E poi “Primavera araba”. Se si potesse riprodurre in musica il lavoro di un gruppo di archeologi che col metodo stratigrafico analizzassero e provassero a descrivere il succedersi delle popolazioni avvicendatesi nei secoli in un pezzo di Sardegna, i loro usi e i loro costumi, la storia dei colonizzatori che hanno lasciato qualcosa o molto di loro, la complessità e i miscugli che ci fanno culturalmente perennemente e orgogliosamente alloctoni – essendo l’autoctonia un falso mito ed un male in sè – bene se si potesse riprodurre in musica tutto ciò, questo sarebbe “Primavera araba”. Si apre maestosa e pare riprodurre le sontuose intro orchestrali che preparavano l’entrata in scena della voce di Oum Khalthoum (l’unica, vera “divina”, altro che Callas). A entrare in scena è invece la voce di Paolo che, riproducendo la tipologia canora del canto a chitarra, canta i versi gioiosi e struggenti insieme di Pauliccu Mossa, poeta sardo dell’800. Una bellezza da lasciare attoniti.

Ma tutto è bellezza in “Sale quanto basta”. Un disco meraviglioso che non è una cesura, come è parso ad alcuni, nel percorso artistico di Paolo Angeli, ma semplicemente uno straordinario punto d’arrivo in un lungo percorso conquistato con coraggio e passione. Una tappa importante per “fare acqua”, rafforzare lo scafo, aggiustare una vela e comprarne una nuova. Raccontare storie, fare il punto, acquistare consapevolezza di dove si è arrivati come preparazione a nuove e ancor più ardite partenze. Sono, questi suoni magici, il condensato di mille esperienze tutte alimentate da una cultura meticcia che rifugge con metodo e istinto ogni tipo di sterile purezza.

Facile abbinare un vino alla musica di Paolo Angeli contenuta in “Sale q.b.”. Non può che venire in mente un solo vignaiolo, irregolare, anti identitario, meticcio. Dunque sardo. Un vignaiolo che rifugge con metodo e istinto ogni forma di purezza. Un filosofo antroposofico per il quale fare vino è parte del tutto, del rapporto con la terra, con gli uomini, con la natura e con gli dei. Un contadino che tiene da sempre lontani dalle sue vigne e dalla sua cantina qualsiasi tipo e qualsiasi quantità di trattamenti sistemici, erbicidi, pesticidi e ogni forma di chimica. Anche gli interventi naturali sono ridotti al minimo, niente lieviti che non siano quelli autoctoni presenti sugli acini, niente filtrazioni né solfiti. Le vigne sono tutte sue, conosce ogni vite e la tratta come un individuo unico, diverso da tutti gli altri. E’ la vite a dirgli cosa fare dei grappoli, che vino farli diventare, di anno in anno, di vendemmia in vendemmia. Tanto che anche le potature cambiano da pianta a pianta, perché di ognuna sa cosa può dare e non le chiede di più. Un winemaker che, come racconta il grande importatore di vini naturali Louis Dressner, dichiara che le sue più grandi influenze come vignaiolo sono Bob Dylan e Gesù. I suoi vini, da quando scoprii il primo che imbottigliò etichettandolo tanto tempo fa e dopo anni lavoro ed esperimenti – si chiamava Skistos, non è più tornato perché le viti, le stagioni e la sua ispirazione hanno voluto così ed ancora da allora lo aspetto come il figliol prodigo –, sono tra i miei preferiti di sempre.

Ora di vigna ne ha presa una nuova, in affitto. Discosta dalle sue altre, si trova in un posto magico, selvaggio e meraviglioso nel quale gli spiriti della natura sono talmente presenti che pare quasi di vederli. La vigna era ordinatissima, le viti legate e militarmente allineate. Prigioniere. Lui l’ha liberata, l’ha lasciata scegliere, sta imparando a conoscere tutte le viti, tutti gli individui che la compongono. Una vigna nella quale convivono tante uve diverse: barbera, ciliegiolo, montepulciano e altre di origini disparate. Un oltraggio al recente, falso, ossessivo mito dell’auctoctonia.

Lui si chiama Gianfranco Manca, recita e dipinge con le uve ed il vino a Nurri in Sardegna, ma non riconosce alcuna identità etnica al suo creare soul wine. Preferisce dirsi, come scrive sulle etichette dei suoi vini, un “vignaiolo sulla terra”. Il vino meticcio che viene dalla nuova vigna si chiama U.V.A., che sta per “United Vineyards of Ampia cussorgia”. Una meraviglia di sentori di sangue, inchiostro, animali selvatici, frutta, minerali. Bocca ampia e lunga di seta. Caldo di alcol più di quanto Gianfranco avrebbe voluto, ma nonostante ciò di rara eleganza e magica leggerezza.
Il disco di Paolo Angeli, chitarrista sulla terra, in un bicchiere.

9 Commenti a “Elogio della bellezza alloctona: Paolo Angeli e Gianfranco Manca, artisti sulla terra.”

  1. fabio d. scrive:

    splendido leggerti, antonio, è sempre un’emozione cadenzata, ritmica, vibrante.
    ho una domanda sincera, complicata e (anche) personale da farti: filosofia e vini di gianfranco (e elena) a parte, che sono bicchieri di grandezze attualmente non misurabili, unici, incisivi e profondissimi, perché parli della autoctonia come mito? per di più falso se non ossessivo?
    ti ringrazio
    f.

  2. antonio scrive:

    carissimo fabio, grazie innanzi tutto. è un discorso molto ampio, legato ad una evoluzione del mio pensiero che va al di là del vino. In realtà per il recupero dei vitigni autoctoni e la loro valorizzazione passa una buona fetta della battagia contro i vini uniformi, tutti uguali, che assecondavano il gusto di qualche influente recensore e ne condizionavano il successo e l’accesso a importanti mercati. Oltre che la nascita e la crescita di molti vini meravigliosi.
    E’ che come purtroppo spesso accade nel vino e nella vita certe cose partite buone diventano segno di chiusura, di ostilità, di avversione. Così come certe battaglie estenuanti per affermare che un vitigno si origina in un posto piuttosto che in un altro e che è nato quì piuttosto che là consumano energie che andrebbero dedicate a fare un vino buono e sano piuttosto che ad affermare inutili primazie. L’autoctonia come valore diventa escludente, diventa una barriera.

  3. antonio scrive:

    penso che tutto e tutti siano alloctoni. se qualcuno o qualcosa arriva da un posto anche lontano e dove arriva si innamora e viene d’amore ricambiato, e nel nuovo luogo bene accolto e ben trovato si radica, allora cambia, diventa altro da quel che era per acclimatamento affettivo. vale per le viti, vale per gli uomini. Credo che il meticciato, l’unione, la mezcla siano la vita. Come vedi il vino c’entra solo fino ad un certo punto. ma c’entra. ad esempio anche l’essere “sardo” di un vino è malinteso, anche dai produttori. oggi quando uno pensa al cannonau ad esempio, pensa ad un vino concentrato e impenetrabile nel colore, forte d’alcol da cancellare, con l’alcool, diffetti ma anche finezza di profumi secondari e terziari schacciati dall’esibizione muscolare. non era così, un tempo. il cannonau è stato anche scarico di colore ed elegante, e ne ho assaggiato certi bassi d’alcol e ancor più neravigliosi.

  4. antonio scrive:

    insomma basta sardi e basta vini sardi SOLO in cambales e berritta e resolza, chi pius este acuta sa resolza e pius sese sardu. sardo è anche altro che non sia la classica oleografica immagine che se ne ha.
    Più che essere contro l’autoctonia che si fa mito in somma, sono PER l’alloctonia come valore. Scusa per queste parole confuse ma spero di aver almeno vagamente reso l’idea. se no ne riparliamo davanti ad un bicchiere di vino di Gianfranco ed Elena :-)
    Grazie ancora

  5. tommaso scrive:

    Antonio leggerti è un piacere. Quando la relazione tra autoctono ed alloctono è di ordine circolare, allora il senso del luogo e delle culture assume un aspetto virtuoso. Detto questo da sassarese, città meticcia al punto da non essere più compresa. Nata da un vecchio accordo tra sardi e genovesi e cresciuta e pasciuta tra Vie dei Corsi, commerci pisani, occupazioni spagnole e imprenditori ottocenteschi. E fainè.

  6. salvatore scrive:

    Più che una critica musicale mi sembra un vero saggio sulla critica;direi una
    critica musicale musicante, suoni, parole che si stendono in un racconto di autorevole bellezza, di una partitura del sentire con richiami delle più antiche genti che hanno popolato quelle terre.
    E poi il finale di questi calici rossi, stupendo……
    Ovviamente é bellissima musica ma mi dispiace non conoscere il gusto del vino ma mi fido ciecamente del racconto
    Grazie Salvatore

  7. fabio d. scrive:

    Scusa Antonio, non ho più dato (mea culpa) un occhio ai commenti e mi sono perso la risposta. Ho capito, almeno credo, il tuo sentire. Il limite tra barriera e difesa è molto sottile, tra integrazione e sfruttamento ancora di più. Bisogna scegliere e bisogna farlo con coraggio. Parliamo di viti, di vino ora: non è una questione sarda, almeno non lo è per me, ma è una questione, un principio generale. Lo chardonnay siciliano, ormai ampelograficamente un vitigno territoriale (30 anni di impianti), è per davvero un vino siculo, isolano, sfaccettato, spigoloso, salato, caratteristico come possono essere il grillo o l’inzolia? E se fosse un’esigenza commerciale (più che legittima ci mancherebbe) più che una scelta di integrazione, di apertura, di inclusione? Va da se che il mio esempio non si riferisce a Gianfranco, per lui le scelte commerciali sono un mistero profondo :)
    Il confronto su questo tema mi appassiona, sono dubbi che mi pongo anche io.

  8. antonio scrive:

    Ciao fabio. nessuna colpa, anzi. E’ bello riprendere il discorso dopo un pò. So che hai colto che il mio era un discorso che prevalentemente andava al di là del vino. Ti ricopio un pezzo della prima parte della mia lunga risposta tripartita riportatat più sopra: “per il recupero dei vitigni autoctoni e la loro valorizzazione passa una buona fetta della battagia contro i vini uniformi, tutti uguali, che assecondavano il gusto di qualche influente recensore e ne condizionavano il successo e l’accesso a importanti mercati. Oltre che la nascita e la crescita di molti vini meravigliosi.”
    E per rispondere, ad integrazione di quanto sopra copiato, alle tue 2 domande sullo Chardonnay siciliano tale risposta è No alla prima domanda e IN MOLTI CASI SI alla seconda.
    Poi tra uno Chardonnay siciliano impiantato oltre 30 anni fa allevato e vinificato senza morte chimica al lavoro e un grillo o un’inzolia dl contadino e del megaproduttore bombardato di veleno…..

  9. antonio scrive:

    …e so per certo che anche su questo la pensiamo allo stesso modo. Ciò detto, dopo un decennio di consumatore-degustatore-divulgatore di vino passato ad essere un’integralista dei vitigni autocotoni oggi anche io ho molti più dubbi e domande che certezze e risposte.

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