FABIO, THOMAS HARDY E PASSIONE
FACCIA A FACCIA COL SIGNORE DELLA BIRRA
Passare due ore di sano “ozio culturale” alla Birroteca Hamelin è un’esperienza che lascia segni . Succede di scoprire che esistono ancora personaggi appassionati che portano avanti un sogno. Fabio Piredda è persona capace di mettere assieme, e con sobrio buon gusto, cose apparentemente in antitesi come passione, commercio, missione e azienda. Conosce ogni bottiglia esposta sugli scaffali ben illuminati nei minimi particolari e ti spiega tutto con l’entusiasmo di un bambino al quale hanno regalato il giocattolo che non osava chiedere e che non sa capacitarsi di avere fra le mani.
Assaggiamo insieme una Traquair House Ale che non ho difficoltà a paragonare a un grande Barolo anni ’60 per spessore e austerità; lui guarda la mia espressione e gode del mio stupore e del mio appagamento sensoriale. Fabio il missionario contagia entusiasmo e rigore. Di questo piacevole incontro vi lascio la sintesi che segue:
TARIBARI: Fabio non voglio farti le solite domande tipo “come è nata la tua passione per la birra” o “perchè hai scelto di rimanere a Sassari”, però due parole di presentazione per chi ancora non ti conosce sono d’obbligo… vai!
Fabio: mah, che dire, non parlo mai troppo volentieri di me… Diciamo che mi definirei un tipico buongustaio che nel caso del mio lavoro ha fatto di virtù necessità, niente di più e niente di menù:). Mi piace stare in negozio, mi piace molto l’atmosfera che si respira, adoro stare in mezzo alle etichette che scelgo di tenere sugli scaffali e soprattutto stare a contatto con una clientela appassionata, interessata, che ha voglia di entrare in un mondo nuovo alla ricerca di sapori inesplorati e che via via comincia a dare del “tu” a questo mondo e a specializzarsi sempre più.
TARIBARI: Mi hai fatto dono di una bottiglia preziosa, una birra fuori produzione della quale non avrebbe senso scrivere se non avesse la storia particolare che ha.
Fabio: avendo il privilegio di lavorare con qualcosa di cui sono appassionato ho la possibilità di imbattermi di tanto in tanto in prodotti che hanno qualcosa di speciale, di inimitabile, di unico. E’ il caso della birra che ti ho regalato, una Thomas Hardy’s Ale del 2005. Specifico l’anno di produzione perchè si tratta di una barley wine, universalmente considerata la più importante della storia della birra artigianale. La produzione limitata con tanto di bottigliette numerate una ad una, l’affinamento in botte e l’uscita di scena (ahinoi è fuori produzione dall’inizio del 2008) dal mercato rendono la Thomas Hardy’s Ale qualcosa di ben più grande rispetto a una buona birra. Direi che rappresenta al meglio il concetto di “birra da meditazione”, cioè di un prodotto birraio superiore, di enorme spessore qualitativo, il più estraneo possibile alle dozzinali etichette presenti sulla grande distribuzione.
TARIBARI: Esiste qualcosa di simile in giro per il mondo? Magari anche qua da noi?
Fabio: di simile non direi. Esistono birrifici artigianali italiani che realizzano barley wine di ottima fattura, questo si. Se parliamo poi di “birre da meditazione” direi che qualcosa di buono in giro esiste, anche in con una buona propensione, in Italia, alla ricerca della territorialità in fatto di produzione brassicola. Mi viene in mente un grande pioniere come Teo Musso che ha fatto di Baladin una fucina di grandi idee birraie ormai famose un pò dappertutto nel mondo. Penso anche, guardando alla Sardegna, a una birra come la BB10 del birrificio Barley. Personalmente, tornando ai barley wine, mi piace molto il mercato statunitense e la tendenza americana a estremizzare questo stile nella sua componente luppolata. Una birra eccellente in questo senso è per me la “Old Foghorn” della Anchor di San Francisco.
TARIBARI: La birra viaggia ormai con la pari dignità che merita nei confronti del vino. Dal tuo osservatorio riesci a vedere se la gente inizia a usare la birra non più come dissetante ma come accompagnamento al cibo?
o Fabio: potrei dire che va tutto a gonfie vele, che la birra buona si consuma di più e che siamo tutti felici e contenti. La verità è in parte questa, ma solo in parte. Il vero problema della birra nel nostro paese non è quello culturale bensì il totale disinteresse da parte di ristoratori, proprietari di pizzerie, negozi specializzati e così via nel capire più di birra e nel decidere di renderla parte della propria offerta. Quello che vedo è un crescente desiderio di birra di qualità da parte del consumatore ma, purtroppo, in totale contrapposizione a un movimento della ristorazione che pensa, almeno secondo me, sempre meno alla qualità di ciò che finisce nel piatto e nel bicchiere. Credo che il grande equivoco della mancanza di crescita sotto questo punto di vista stia in un sillogismo banale ma impietosamente efficace: la birra industriale può essere venduta a 3 euro la bottiglietta con un costo all’ingrosso molto basso che permette ricarichi importanti a chi la vende; il consumatore medio si è abituato non solo all’idea che la birra sia una bevanda che ha il sapore della “bionda Sardegna”, ma che sia qualcosa che vale poco e costa poco; chi vende birra industriale fa contenta la massa e tira su dei bei soldi. A me e a chi la pensa come me andrebbe anche bene tutto ciò purchè, parallelamente, ci siano dei piccoli punti di riferimento che possano soddisfare le richieste di una nicchia che sarà anche esigua ma che è costante in crescita. Scusami se mi dilungo ancora in questa risposta, noterai tutto il mio fastidio e, diciamocelo, la mia incazzatura, circa questo argomento ma davvero, la questione della totale mancanza di qualità della birra nella ristorazione è tanto annosa quanto grave e inconcepibile. Qualche giorno fa ero a cena in un ristorante di ottimo livello specializzato in cucina di mare. Ho mangiato cose ottime e in generale direi che il livello della cucina valeva un bel voto 10. E la birra? L’ho chiesta, ovviamente, ci provo sempre e comunque. Mi è stato detto che l’unica birra disponibile era una nota etichetta sarda (si fa per dire) di pessima qualità, pastorizzata e iper industriale. Insomma, nulla che non avrei sopportato qualora avessi cenato con del surimi scongelato, ma con una cena come quella garantisco che è stato piuttosto fastidioso… Tutto questo, ovviamente, al cospetto di una carta dei vini di ben altro spessore.
TARIBARI: Non ti è ancora venuta voglia di farti la tua birra?
Fabio: è una domanda che mi è già stata fatta. Sinceramente no. Io credo che in un mondo globalizzato come quello in cui viviamo, in una realtà in cui tutti vogliono vendere di tutto e a tutti, la cara vecchia specializzazione sia la miglior cosa che si possa sviluppare per poter essere credibili e competitivi. Io credo che fare la birra sia un’arte, un pò come cucinare. Quell’arte merita uno spazio dedicato, merita tempo e sudore e ha bisogno non solo di passione ma di voglia di restare aggiornati, di stare al passo con le tecniche produttive e, perchè no, con la tanto chiacchierata sostenibilità. La mia passione per la birra è nata sotto altri presupposti. Io mi sono innamorato della componente sensoriale e di quella anedottica piuttosto che di quella produttiva. Però mi piace stare a contatto con persone che hanno grande competenza in fatto di homebrewing. Ho diversi clienti e amici che fanno delle ottime birre in casa e ho la fortuna di poter collaborare con diverse associazioni brassicole che si occupano proprio della divulgazione della produzione di birra in casa. E’ una materia che forse un giorno per me non sarà solo interessante ma, chissà, anche imprescindibile.
Grazie Fabio.
BIRROTECA HAMELIN
Via Perantoni Satta 11 – Sassari ph. 0792822096
HO DIVISO L’ASSAGGIO DELLA THOMAS HARDY’S ALE IN DUE PARTI: LA DESCRIZIONE STORICO-TECNICA DI FABIO E A SEGUIRE LE MIE RILEVAZIONI SENSORIALI:
! Dunque, la Thomas Hardy’s Ale è una barley wine (lett. “vino d’orzo”), ovvero appartenente allo stile definito il “cognac della birra”. E’ uno stile nato in Inghilterra (in cui ahimè sta andando sempre più in disuso) e si è sviluppato molto negli USA, paese che a livello birraio ha una netta predilezione per le gradazioni alcoliche vertiginose. E’ nata nel 1968 in occasione del Thomas Hardy Festival di Dorchester che celebrava il 40° anniversario dalla morte, appunto, dello scrittore Thomas Hardy. Inizialmente venne brassata dalla Eldridge Pope (storica birreria di Dorchester nel Dorset ormai chiusa da anni). Quando la Eldridge Pope chiuse i battenti la birra non venne più prodotta per qualche anno quando nel 1999 la O’Hanlon Brewery di Exeter, nel Devon, acquisì i diritti della ricetta e la produsse fino al 2008, anno dal quale la birra non è più sul mercato. Le bottigliette sono in formato da 25cl e sono numerate una per una vista la tiratura limitata di ogni edizione. Ha 11,7% di gradazione alcolica, un corpo tutto sommato esile (almeno in rapporto alla gradazione alcolica) e una vena decisamente dolce e resinosa da “passito della birra” (ma a queste cose ci penserai tu dopo averla provata). Ha una evoluzione in bottiglia di tutto rispetto e una complessità che richiede una buona ossigenazione al momento della degustazione. Sarebbe preferibile servirla secondo me intorno ai 14-15 gradi e in un bicchiere piuttosto panciuto tipo un balloon. Essendo uscita di produzione ogni bottiglietta reperita sul mercato è da considerarsi “puro vintage”.
THOMAS HARDY’S ALE Assaggio del 2 Novembre 2011 h. 17.35 temperatura 18° C
La piccola bottiglia da 25 (?) è di elegante e asciutto stile british con il profilo del poeta Hardy evidenziato sull’etichetta e su una medaglietta di latta che pende legata da un cordoncino rosso. La verso a temperatura ambiente in un largo bicchiere da Bourgogne per ammirarne il colore ambra scura con riflessi ruggine. La schiuma color caffellatte si assesta, dopo i primi accenni di esuberanza, formando una corona nello specchio della massa liquida.
Naso che nell’arco di 15 minuti dall’atto del versare evolve rapidamente passando dalle prime note di ossido-riduzione a sensazioni sempre più dolci e aromatiche con punte di ampia e sorprendente aromaticità. Il corredo olfattivo richiama in prima battuta tutta l’atmosfera di un porto del nord- Europa. Le prime note di tramontana iodata si uniscono a complessi giochi di minerali e idrocarburi che malcelano, tra le pieghe delle suggestioni, richiami a casse di aringhe affumicate che invecchiano in un polveroso magazzino dove bolle una pentola di brodo di glutammato di sodio e sedano. La parte più “nobile” ed eterea dell’esame olfattivo si esprime con note di frutta candita, marmellata di guayaba, liquirizia e miele di eucalipto.
In bocca l’impatto è largo e sgomitante. La base è grassa e pastosa su trama di lana morbida che gioca con note saline piacevolmente pungenti. Anche al palato il richiamo al mare è irresistibile ed è sorretto da una fase retro nasale di melassa di zucchero di canna, caffè e mosto d’uva cotto. Finale lungo e interminabile che continua a giocare con le papille trasformandosi ora in cioccolato bianco, ora in torrone alle noci.
Ampio spettro di abbinamenti con pesci affumicati, piatti di baccalà, pasta alla ricotta mustia, salumi piccanti, formaggi erborinati o molto stagionati, pasticceria secca e sigari toscani di buon livello.
2 novembre 2011 alle 20:10
bella Mastru! e così tutti e due abbiamo reso il nostro omaggio al grande fabio. e con lui alle grandi birre. ovviamente il merito è tutto suo!
circa grandi barleywine sardi io ho un ricordo fantastico di quelli prodotti a casa sua dal grande Peppe. la risposta olbiese alla Anchor!!!
6 dicembre 2011 alle 20:32
Ahahahah troppo buono Antò, appena ci vediamo nè stappiamo una