c’era una volta il cannonau…
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articolo pubblicato sul MANIFESTO SARDO nr. 106 nella rubrica LE PIANTAGIONI DELL?UTOPIA
(Le piantagioni dell’utopia). Quelli della mia generazione o giù di li, quelli che hanno affrontato l’iniziazione al vino, come la maggior parte di noi nel pieno dell’adolescenza, ricorderanno i discorsi dei “grandi” su quel vermentino venuto troppo magro in quell’annata dalla primavera troppo piovosa. O di quel tale Cagnulari che grazie a un centinaio di ore di sole oltre la media aveva regalato tre gradi di alcool in più a un corpo maschio e rotondo.
Erano anni in cui una grandinata ai primi di giugno o una stagione povera di pioggia facevano ancora la differenza. E questi fattori di imponderabilità avevano ancora un senso in Sardegna come in Piemonte, nella Borgogna come nel Duero e in ogni parte del mondo dove il vino era parte integrante della storia di quel popolo. Fattori passati in secondo piano in un mondo, come quello del vino moderno, trasformatosi in una parata di griffes e di bottiglie che ricordano sempre più top model segaligne e uguali fra loro come grigie fotocopie.
LIEVITI, ENZIMI E BUGIE.
Davanti a uno scenario internazionale di crisi neanche il vino sfugge alla logica imperante dell’omologazione: una ormai diffusa cultura dell’appiattimento che fa un solo boccone di identità, riconoscibilità e poesia del territorio. Viticultori, cantinieri ed enologi che rincorrono lo spettro di una finta perfezione richiesta da un mercato al quale poco importa che il vino abbia realmente qualcosa da raccontare ma piuttosto che risponda a dei parametri di cromatismi, limpidezze, profumazioni e corredo aromatico standardizzati.
Riflettiamo un attimo sulla attualità del nostro Cannonau: un vitigno che nella sua espressione più tipica, e con tutte le variabili geografiche, ha sempre dato vini piuttosto scarichi di colore e non particolarmente ricchi di tannini.
Un vino che realizzava un piccolo miracolo: quello di esprimere potenza e spesso eleganza pur manifestando un immagine aggraziata, quasi fragile, con quelle sue sfumature di rubino scarico, quei suoi sentori delicati di fiori autunnali e quel tocco di amabilità data da un alcool importante e da una ricchezza di estratti. A un certo punto del percorso qualcuno decide che a presentare dei cannonau così fatti c’era da vergognarsi e che bisognava adeguarli a una domanda che li voleva rossi scuri, cupi, grossi e profumati di vaniglia: dovevano in parole povere “toscaneggiare”.
Ed ecco che oggi, salvo qualche raro episodio sparso qua e là per l’isola, la nostra produzione media di rossi, che si tratti di cannonau, carignano, monica o bovale, è rappresentata da bottiglie distanti anni luce dalla tradizione e dalla tipicità. Tutto questo grazie ad una serie di “accorgimenti” e macchinari che riescono a modificare in maniera importante la struttura originaria del vino, come i concentratori e le barriques, e all’utilizzo ormai imperante di enzimi e lieviti selezionati.
Quest’ultima è la nota dolente che fa spesso imbestialire molti addetti ai lavori. Per aiutare la comprensione di chi non è addentro alla materia proverò a spiegare sinteticamente il meccanismo della fermentazione alcolica: gli acini dell’uva ospitano sulla buccia colonie di lieviti indigeni, microorganismi unicellulari naturalmente presenti in vigna, ai quali la natura ha da sempre affidato il compito di far partire i processi fermentativi che completano la trasformazione del mosto in vino. L’avvento dell’agricoltura intensiva, argomento che ho trattato nel numero scorso, ha promosso un utilizzo sfrenato di prodotti chimici che ha finito per diffondersi anche fra i piccoli produttori. La miscela terribile di fitofarmaci, pesticidi, diserbanti, concimi chimici, oltre a distruggere il patrimonio organico del sottosuolo, ha sterminato o quantomeno indebolito i lieviti naturali dell’uva che sono stati resi incapaci di svolgere il loro compito di mangiatori di zucchero per trasformarlo in alcool. Ed ecco che l’uomo trova l’escamotage che gli consente di perpetuare la secolare ambizione di sottomettere la natura alle proprie esigenze di arricchimento: allevare in laboratorio delle colonie di lieviti selezionati da utilizzare per la soluzione di diversi problemi. L’aspetto più sconcertante è che questi microorganismi da gabinetto scientifico hanno subito negli anni un potenziamento e un’evoluzione talmente importanti da renderli fondamentali ben oltre la fermentazione alcoolica come per esempio renderli capaci di “pilotare” il corredo olfattivo di un vino. E’ facile così spiegarsi, ad esempio nei nostri bianchi sardi, l’apparire di profumazioni e riconoscimenti esotici assolutamente inusuali e fuori dalla tipicità olfattiva di vermentini e nuragus. Quando mai avevamo incontrato, nell’odorare un Vermentino di Gallura, delle suggestioni olfattive che ci rimandavano all’albicocca, al mango o al passionfruit? Oggi succede e anche molto frequentemente!
I detrattori dell’agricoltura naturale e rispettosa dell’ambiente, quella portata avanti da quei vignaioli che scelgono di lavorare senza la scorciatoia della chimica, sostengono che la valorizzazione e l’uso dei lieviti indigeni presenti naturalmente sull’uva è una sorta di inganno demagogico. Una delle motivazioni più ricorrenti è che questi microorganismi, oltre ad essere poco efficaci in fase di fermentazione, non sarebbero capaci di dare un vero contributo di personalità e originalità al vino in quanto perennemente spostati dai venti.
Non dicono, i detrattori, che il risultato finale di una bottiglia di vino è frutto della sinergia fra terreno, esposizione, allevamento, microclima e rispetto della materia prima.
E’ vero che un mosto attivato da lieviti naturali è più difficile da controllare e che questa pratica non è in grado di garantire una costanza qualitativa e caratteriale di vendemmia in vendemmia. Ma chi l’ha detto che i vini devono essere uguali di anno in anno, chi l’ha detto che devono seguire dei clichè che li rendono fotocopie di bottiglie neozelandesi o francesi o californiane? Chi può decidere che non c’è spazio per un gusto nuovo e antico allo stesso tempo, capace di portare tra le righe del proprio codice i segni del proprio ambiente senza mediazioni e senza inganni enologici?
Io personalmente preferisco un vino leggermente velato, con i suoi pochi profumi originali e che sappia raccontare il lavoro che c’è dietro, a un vino perfettamente cristallino, profumato in stile chardonnay e in bocca uguale a decine e decine di altri vini di ogni angolo del mondo.
Esistono forme di vitivinicoltura che per fortuna si stanno largamente diffondendo e che, rinunciando ad avvelenare la terra e i suoi prodotti, fanno vini lontani anni luce dagli stereotipi correnti. In un prossimo appuntamento ne vedremo qualcuna da vicino.
Questo articolo è stato pubblicato venerdì, 16 settembre 2011 alle 00:14 e classificato in Ambiente. Puoi seguire i commenti a questo articolo tramite il feed RSS 2.0. Puoi inviare un commento, o fare un trackback dal tuo sito.
13 marzo 2013 alle 12:23
Voglio fare i complimenti -da semplice appassionato- per le cose dette in questo articolo, e in tutti gli altri articoli che sto “divorando”. Grazie per aver dato voce a tutti quelli, come me, che sostengono e difendono la bontà del buon cibo. Delle tradizioni e della nostra storia. Grazie a nome di tutti quelli che lavorano la terra con la coscienza di far bene, rispettando le stagioni e la terra, avuta in prestito.