Ricordare John parlando di Chet…

7 marzo 2009  |  di Piero Careddu

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Questo pomeriggio stavo pensando di scrivere qualcosa su “The last great concert” di Chet Baker, quel miracolo in forma di disco che fu l’ultimo concerto del cantante-trombettista per la radio tedesca. Lo ascoltavo in macchina andando al lavoro e, immerso in quel liquido amniotico che creano le note e gli arrangiamenti rarefatti di questo capolavoro, pensavo alla vicenda di quella registrazione in diretta radiofonica. Il tutto avvenne poche settimane prima della morte di Chet. Di lui si sa tutto: trombettista autodidatta, una vita dedicata alla musica e all’eroina; personalità controversa, innamorato di un’Italia che lo aveva sempre accolto, coccolato, viziato, amato come le donne, una più importante dell’altra, che hanno accompagnato un’esistenza dura quanto votata all’immortalità… Poi in serata mi è arrivata come uno schiaffo la notizia della morte di un altro uomo meraviglioso: quel John Martyn che io e pochi/molti altri abbiamo amato, chi come me da subito, chi scoprendolo in età avanzata… Baker e Martyn hanno un filo che li lega e sfortuna ha voluto che non si siano mai incontrati: Chet suonò cose splendide con Elvis Costello e Van Morrison, non oso immaginare cosa poteva venir fuori da una serata con John Martyn; lui Baker che sguazzava nel piacere di trasformare in standard canzonette d’amore, ballads struggenti e bossa nova. Entrambi hanno macinato grande musica pagando profumatamente il pegno del loro vizio; hanno pagato in vita con forti rallentameti di creatività e lavoro; spesso caduti nel dimenticatoio, risollevati nel finale di vita ma nessuno dei due è morto per cause direttamente legate a droghe e alcool.

THE GREAT LAST CONCERT
Per meglio comprendere la grandezza di questo lavoro bisogna tornare ai primi mesi del 1988, anno della scomparsa di Chet, e alla profonda depressione in cui era precipitato. Non aveva mai tentato direttamente il suicidio ma in più di un’occasione aveva manifestato la stanchezza di vivere e il gesto di iniettarsi dosi letali di speedball (miscuglio infernale di eroina e cocaina) faceva ormai parte della quotidianità. Diane Vavra, una delle quattro donne che gli avevano segnato la vita, lo aveva definitivamente e dolorosamente abbandonato dopo un lunghissimo periodo in cui gli attacchi di paranoica gelosia si trasformavano in violenti maltrattamenti. A modo suo amava Diane e continuò a cercarla e a immaginare, nell’alternanza di delirio e lucidità, un finale di convivenza serena in una ipotetica casa sul mare. All’inizio dell’ 88 il lavoro andava male; si aggirava per i locali di mezza Europa con una corte di pochi e adoranti musicisti amici; spesso club scalcinatissimi che non si riempivano più come una volta al passaggio della Grande Icona del cool jazz . Lo scarso denaro che entrava veniva bruciato in un batter d’occhio e il sostentamento quotidiano era ogni giorno sempre più problematico. L’emblema di quel grigio periodo è un episodio di fine inverno che, se non fosse per la drammaticità della situazione, potrebbe risultare persino buffo! A  febbraio il gruppo si trovava a Roma con gli ultimi guadagni completamente prosciugati soprattutto per comprare droghe; la moglie del pianista Michel Grailler, che con la figlia Micheline erano diventati inseparabili compagni di sventura di Chet, arrivò persino a paventare la possibilità di prostituirsi per racimolare qualche soldo. Invece quel giorno andò a finire che Michel rimediò una pianola a pile e si mise a suonare per strada in via del Corso con Chet che subito dopo tirò fuori la tromba; immediatamente arrivarono il flautista Nicola Stilo, anch’egli inseparabile amico degli ultimi anni, e il bassista Mimmo Quaratino. Suonarono per un’ora e mezzo davanti a un pubblico incredulo quanto estasiato di 200 persone che occuparono il marciapiede e un bel pezzo di strada.
Ancora più incredula rimase la gente nel vedere, alla fine dell’improvvisata performance, Chet Baker aggirarsi fra la folla a chiedere l’obolo con la custodia della tromba in mano; risultato dell’iniziativa di Michel Grailler fu il corrispettivo in lire di circa 100 dollari…
Come molte altre volte era accaduto della vita del musicista dell’Oklaoma, alla fine di quell’austero e malinconico febbraio arrivò la grande scrittura e ultima occasione per dimostrare che era tutt’altro che finito. La fortuna di Baker era che, tolti gli Stati Uniti dove aveva conbinato troppi guai, in ogni angolo del pianeta c’erano tantissime persone che lo amavano alla follia; uno di questi era Kurt Giese, produttore esecutivo della Norten Deutscher Rundfunk, la radio di stato della Germania Occidentale di allora. Kurt idolatrava Chet e aveva da anni un sogno nel cassetto: riproporre in piena maturità artistica il successo del 1954 di Chet Baker plays and sings. Riuscì ad organizzargli un concerto in diretta radiofonica con la big band e l’orchestra sinfonica della radiotelevisione tedesca. Il repertorio fu accuratamente scelto fra tutti i classici più classici: da I get along without you very well a Tenderly, passando per My Funny Valentine. Avrebbe suonato con un’organico di 62 musicisti fra i quali due vecchi amici degli anni della West Coast: il sassofonista Herb Geller e il pianista Walter Norris che si erano stabiliti da anni nel Nord Europa. Si decise da subito che l’evento sarebbe stato preceduto da 5 giorni di prove e, come sarebbe stato facile prevedere da chiunque conosceva bene Baker, il copione fu rispettato: il vecchio marpione da subito uccel di bosco, introvabile per chiunque, produttori compresi e, pare, in giro per località marine con Micheline, la figlia di Grailler. Dopo le prime due assenze dalle prove la tensione era alle stelle e il telefono del buon Kurt Giese era rovente dalle furibonde chiamate degli stati maggiori della NDR, durante le quali la minaccia più soffice era che se Baker non si fosse presentato nell’immediato il concerto non avrebbe avuto luogo. Fece la sua glaciale e mesta apparizione alla fine della terza giornata di prove con i musicisti che, preso atto dell’irreperibilità del trombettista e grazie a un faticoso lavoro diplomatico di Giese, andavano via sconsolati dalla sala dopo aver terminato di registrare le basi dei pezzi, per mettere in condizione Chet di fare almeno una prova prima della data che si avvicinava minacciosamente. Walter Norris e Herb Geller era fortemente preoccupati e certi che la performance sarebbe stata un fiasco assoluto: il loro vecchio amico era lo spettro di se stesso, le gengive da anni prive di tutta la dentatura si erano indebolite e non lasciavano aderire la dentiera; gli bastava suonare per mezzora e sanguinava come una fontana ma, nonostante tutto, l’innamorato Kurt Giese era certo che ne sarebbe venuto fuori qualcosa di memorabile. Arrivo finalmente il 12 aprile e tutto era pronto per il concerto; due ore prima Baker si presentò con una giacca scamosciata con le frange tipo trapper e degli stivaletti a tacco alto stile cow-boy. Era molto giù di corda e il suo stato d’animo aveva contagiato musicisti ed entourage dell’evento: tutti si muovevano in un silenzio glaciale dietro le quinte mentre Baker fingeva di ascoltare gli occasionali interlocutori fissando il pavimento. L’inizio fu un’interpretazione di Valentine di nove lunghi minuti; lunghi quanto impregnati di un’intensità narrativa da pelle d’oca: il pezzo parte con una chitarra e la voce di Chet specchio del suo momento esistenziale. Parole sussurrate e strappate dalle viscere mentre, durante lo sviluppo del tema, la tromba canta note aeree su un tappeto di cotone soffice rappresentato dagli archi dell’orchestra sinfonica. Una delle più belle versioni della stracantata e suonata My Funny Valentine che servì per rompere il ghiaccio e far immediatamente capire ai presenti che si trovano dentro un momento musicale di portata storica. Il concerto andò avanti per più di due ore con una carica emotivamente devastante e con un Chet Baker che, col passare dei minuti, si domostrava in un miracoloso stato di grazia. Colui che poi divenne una delle colonne dell’avanguardia free jazz, il sassofonista Archie Sheep, commento quella straordinaria esibizione dicendo: ” Ha raggiunto ciò che inseguiva da sempre: sembrare Miles; e oggi sembrava più Miles di Miles…”. Morì circa un mese dopo ad Amsterdam cadendo dalla finestra dell’Hotel Henricks e lasciandoci in eredità il disco forse più importante per bellezza e densità di significati biografici…

Chet Baker
“The Last Great Concert” 2 cd . Enja 199

sentito con: Porto Sao Pedro Vintage 1975

RICORDARE JOHN MARTYN.

Chi legge questo blog con una qualche regolarità ricorderà la “conversazione in famiglia” tra me e Antonio Canu su John Martyn nell’articolo del 26 Maggio dell’anno scorso. John se n’è andato nella maniera più scema che potesse capitare a uno che aveva perso una gamba quale conseguenza di anni di alcolismo feroce: una doppia polomonite! L’ultima cosa che voglio fare è il necrologio di un artista che ha accompagnato più della metà dei miei anni. Grazie John, anche quando hai dovuto fare qualche marchetta per vivere ho pensato: averne di marchette così belle! buon volo…

Birra Menabrea e toscano puzzolente!

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