Cucina e Società: l’altra faccia della crisi
Mi rendo conto che il titolo può sembrare oltremodo pretenzioso e tendente a una eccessiva drammatizzazione dell’argomento, mentre il risultato al quale vorrei arrivare con questa riflessione è esattamente il contrario. La profonda crisi di valori che attraversa la nostra società è sotto i nostri occhi: all’indomani della caduta dei regimi del socialismo reale, le dottrine iperliberiste che hanno permeato le economie occidentali non sembra abbiano portato miglioramenti percettibili; il risultato è che c’è un sempre più ristretto numero di individui ricchi che si arricchisce ulteriormente e una moltitudine di esseri umani sempre più vicina allo spettro della povertà. Mi chiedo se la ristorazione, la grande cucina in genere e lo stesso mondo del vino possono farsi, dalla loro prospettiva di azione, portavoce di una nuova moralizzazione dei costumi e dei consumi.
L’atto dello stare a tavola in quanto convivialità e scambio di culture è cosa antica, come lo è la scoperta da parte dell’uomo della cucina come trasformazione della materia in cibi piacevoli al palato. Il bombardamento mediatico/pubblicitatario di cibi finti e il progressivo impoverimento della gente sta facendo progressivamente scomparire questa cultura: la gente va sempre meno in ristorante, è sempre meno attenta alla qualità e alla piacevolezza di quello che mangia, ma soprattutto la grande crisi economica sta portando alla scomparsa dei ristoranti di livello medio e delle trattorie. Un altro aspetto che ha contribuito negativamente all’allontanamento della cosiddetta gente comune dalla ristorazione è stato il fenomeno della “artistizzazione” (conio un pessimo ma efficace neologismo) della figura del cuoco e la conseguente trasformazione del buon ristorante in un luogo d’incontro elitario e ad uso e consumo di sole persone facoltose.
Il cuoco è sempre più star televisiva e personaggio da rotocalco e sempre meno presente ai fornelli,
la deificazione porta queste figure a cercare sempre più di stupire e sempre meno a fare cose buone che raccontino territorio e stagione. Schiume sifonate e stracopiate, palloncini, scatolette di latta, essenze spruzzate con vaporizzatori e altre, mi si passi il termine, cazzate , prendono il posto del classico buon piatto, anche di fantasia, realizzato col maialino ruspante o con le verdure dell’uiltimo orto fuori città o del formaggio di capra trovato a molti chilometri di distanza.
La tecnica di cucina e la tecnologia sono state fondamentali per il miglioramento dell’alimentazione
moderna: oggi l’attenzione alle cotture, insieme all’eliminazione dei grassi animali e a un complessivo alleggerimento dei piatti, è un punto fermo dal quale non si può prescindere; anche la presentazione dei piatti è diventata una piacevole esigenza. Tutto questo va bene fino a che tecnicismi eccessivi e ricerca patologica di una cucina patinata che non ci appartiene, non prendono il posto di quell’ingrediente che purtroppo non si compra al mercato: il cuore!
Il cuoco non è un artista! Questo deve essere ben chiaro! E’ semmai un artigiano trasformatore di materie prime possibilmente freschissime ed eccellenti; è un umile manipolatore di sensi, un nascosto giocoliere delle stagioni, un ricercatore di equilibri e armonie.
Alla luce di tutti questi ragionamenti mi chiedo e vi chiedo (lo chiedo a ristoratori, cuochi e clienti)
È possibile tornare a far godere della buona cucina anche la gente comune? E’ possibile distruggere il luogo comune che la trattoria è sinonimo di scarsa qualità e pessimo servizio? E’ possibile tornare a una dimensione di cucina meno cerebrale e più incentrata sulla ricerca dei sapori e delle culture territoriali? Il dibattito è aperto…
29 gennaio 2008 alle 20:09
Già leggo che devo tenermi sotto le mille battute e questo limita oltremodo la mia libertà di espressione. Ma siamo in tema, perchè di oppressione della libertà voglio parlare. E di oppressione della libertà hai parlato tu nel tuo scritto.
La forbice tra il povero e il meno povero (il ricco non esiste Piero, è talmente vaporizzato, talmente raro, talmente evanescente nella sua piccola concentrazione che spalmato sulla popolazione…) si sta sempre più ampliando. Il povero non va nemmeno in trattoria…ed infatti la trattoria muore.
Il meno povero quasi non ci va, perchè vuol sembrare ricco ed allora sceglie di andare in ristorante.
L’epicureismo che dovrebbe essere parte integrante del bagaglio culturale della persona che vuol vivere è purtroppo cosa rara. La responsabilità non è del giocoliere delle stagioni, ma della cultura del cliente. Sembra razzista detto così, ma la mancanza di cultura spadroneggia maggiormente laddove la mancanza di moneta acuisce le differenze tra ceti.
29 gennaio 2008 alle 20:15
Sconfiggere i problemi che sollevi tu è possibile. La gente comune può eccome godere della bontà della buona cucina. La trattoria può ergersi finalmente a spazio di creatività, qualità e piacere. Le schiume vaporizzate al glen grant con cacao magro di madagascar e fumé di polpo al guacamole e fragola possono lasciare spazio alla cucina delle stagioni.
Come?
L’uomo comune deve smetterla di pensare che la cultura sia cosa per pochi.
Deve poi comprendere che non esiste vera felicità senza vera curiosità.
E infine, last but not least: le stagioni sono gratis, se esistono; il giocoliere delle stagioni deve pur campare, ma se lo stipendio della gente comune è fermo dal 96 e i prezzi del coltivatore salgono ogni due giorni come si fa a far quagliare il sistema? Rischiamo di avere clienti colti ma affamati! Affamati di curiosità! Che cosa brutta è quella che hai evidenziata!
saluti
29 gennaio 2008 alle 20:41
Grazie Michele; penso che ci sia alla base un problema di costi di gestione: io da tecnico del settore non mi scandalizzo davanti a conti di ristorante da 250 euro a persona se sono a conoscenza che in quel locale ci sono 25 posti a sedere, con 8 camerieri, 2 sommelier, 10 dipendenti in cucina, bicchieri riedel a tavola, tovaglie di fiandra ecc.; allora forse dovremo guardare avanti e ripensare, per esempio, le convenzioni del servizio di sala e dell’impostazione del lavoro in cucina!
Credo sia possibile.
30 gennaio 2008 alle 12:58
Piero, su un numero recente del “New Yorker”, Adam Gopnik racconta un esperienza tanto banale quanto entusiasmante ed intensa: alimentare se stesso e la propria famiglia per un periodo sufficentemente lungo con prodotti locali. Adam abita in uno dei cinque distretti di New York City. Se lui è riuscito in questa esperienza, e lo ha fatto, evidentemente tutti noi potremmo con un maggior impegno, con consapevolezza, attuare un piano che ci consenta un alimentazione costituita al 90% con prodotti provenienti da un area nel raggio di cento km attorno alla nostra casa. Non voglio provocare sterilmente, semmai mi piacerebbe che questa via costituisse un impegno condiviso e virtuoso tra consumatori e fornitori, fra clienti e ristoratori. Forse questo potrebbe consentire una nuova strada , parallela alla “molecolar cousine“, ma chiara e riconoscibile ai consumatori attenti.
30 gennaio 2008 alle 16:12
molto interessante e con una valenza raddoppiata visto che arriva dagli USA, paese che notoriamente non brilla per abitudini alimentare corrette.
potrebbe diventare una delle campagne dei prossimi anni per creare una nuova sinergia tra consumatori e ristoranti.
31 gennaio 2008 alle 20:36
Che stimoli e che input interessanti che vengono da michele e tt!!! E sembrano quasi avermi/ci letto nel pensiero. Sono infatti in preparazione due miei articoli, non concordati ma che capitano a fagiolo solo per via delle mie affinità elettive con piero, e che rieccheggiano le questioni poste proprio da michele e tt. Uno sulla nouvelle vague della ristorazione che e’ iniziata a Parigi da alcuni anni così detta dei “bistronomique” dove si mangia grande cucina a prezzi abbordabili – spiegeremo come e dove – l’altro sulla questione delle De.Co., le denominazioni comunali che sono state l’ultima battaglia del grande Gino Veronelli. Stay tuned!