SOMMELIER, DECLINO O RINASCITA

22 gennaio 2016  |  di Piero Careddu
Essere Sommelier in questi anni di crisi e cambiamenti repentini, costringe i portatori sani di buon senso  a porsi tutta una serie di domande  per andare oltre gli steccati di accademismi ammuffiti e ormai sempre più lontani dalla realtà. D’altronde l’esistenza, in territorio italiano, di ben cinque associazioni di assaggiatori di vini e distillati, altro non è che il sintomo manifesto di una patologia che annuncia l’irreversibile declino della figura del sommelier per come è stata a tutt’oggi concepita. Quello che le dirigenze e le menti pensanti di molte delle associazioni di sommellerie parrebbero ignorare è, da una parte, che il mondo cambia e insieme al mondo il modo di fare vino, dall’altra che la mercificazione della qualifica professionale, svenduta negli anni un tanto a chilo, ha prodotto un esercito di debuttanti che si aggirano per il globo fregiandosi di un titolo che una volta era motivo di orgoglio e oggi, per molti di noi della vecchia guardia, la tendenza a tenerlo quasi nascosto. I sommeliers di primo pelo ( che spesso lo restano a vita) che visitano  enoteche e ristoranti con aria sussiegosa, incolpevoli e ignari del fatto che non si diventa tecnici dell’assaggio con due o tre corsi, sono solo uno dei tanti emblemi della decadenza culturale di questo settore. Oggi, rispetto a vent’anni fa,  diventare sommelier qualificato è quanto di più facile esista. Con costi variabili da regione a regione ma con offerte formative molto simili, le varie Associazioni mettono in condizioni l’aspirante sommelier di arrivare in tempi brevissimi al traguardo della qualifica. Solo un’ associazione prevede un anno post-diploma di affiancamento ad un tutor ma forse è ancora troppo poco. Se può essere utile alla comprensione, chi scrive ha iniziato il suo percorso in Ais nel lontano 1988 e passando attraverso una interminabile serie di  durissimi esami. Questo succedeva fino ai primi anni duemila quando arrivare ad essere sommelier professionista non era esattamente una passeggiata. Bene, oggi credo di poter affermare, dopo ventotto lunghi anni e dopo aver fatto il sommelier per mestiere e in prima linea, di sentirmi ancora ben lontano dall’essere un assaggiatore completo. Ma evidentemente non tutti la pensano come il sottoscritto e il mondo della sommellerie, e della ristorazione in genere, naviga a vista in evidente stato confusionale. C’è da dire che l’aspetto di una preparazione insufficiente, dovuta ad una didattica da rivedere di sana pianta e alla rapidità nel sentirsi cucita addosso la medaglia di sommelier, non sarebbe il problema principale. Il vero dilemma è l’assoluta cecità nei confronti di una realtà planetaria che vede l’agricoltura intensiva, dalla quale provengono la stragrande maggioranza delle bottiglie di vino,  tra le maggiori responsabili del disastro ambientale su scala mondiale. Se ci fosse un minimo di volontà di aprire gli occhi e osservare criticamente la realtà, ognuno di noi avrebbe oggi a disposizione mezzi di informazione per venire a conoscenza che anche la salubrità del vino, e di ciò che proviene dalla terra in genere, è da almeno sessant’anni sacrificata sull’altare del businnes e in totale spregio verso la vita degli essere umani. La postura dello struzzo di una grande parte del mondo del vino (e della ristorazione) consente di non far caso ad una legislazione criminale che consente l’utilizzo di centinaia di veleni in fase di allevamento della vite e durante la trasformazione in cantina. A volte parlando con molti colleghi rimango allibito davanti al loro ignorare che dentro un vino, spesso anche griffato e costoso, puoi trovare senza saperlo, in ordine sparso: vitamina C aggiunta, anidride solforosa, tannini enologici,  bentoniti, enzimi, lieviti selezionati ogm, coadiuvanti azotati, regolatori della fermentazione, acidi tartarico,citrico e ascorbico aggiunti, batteri lattici, gomma arabica, tiamine, segatura di legni aromatici per creare l’effetto barrique e potrei continuare. Come scrive il vignaiolo marchigiano Corrado Dottori nel suo bellissimo “Non è il vino dell’enologo”:  “…. Lo scopo di ogni protocollo di vinificazione è avere tutto sotto controllo. Normalizzare le migliaia di sostanze presenti nel mosto, responsabili di una complessa microbiologia, selezionare ciò che serve, aggiungere ciò che manca. In breve: eliminare la paura, il rischio, l’incertezza. Che poi è lo specchio del nostro tempo, delle nostre società. Ricondurre tutto a norma. Controllare ogni dinamica. Sorvegliare ogni elemento. Anche l’aspetto dionisiaco di un processo come la fermentazione alcoolica, tumultuoso e selvaggio per definizione….”. Nei panel di degustazione ci trova spesso davanti a situazioni che definire paradossali è un complimento. Se un viticultore, per esempio,  per sua libera scelta decide di produrre un bianco organico con macerazioni più o meno lunghe sulle bucce e senza filtrazioni, è molto facile che si presenti con un vino più o meno velato o quantomeno non limpido. Quel produttore, prima ancora che il vino venga sottoposto all’esame del naso e del palato, rischia di vedere il proprio vino penalizzato dal responso di giudici ingabbiati in schemi e parametri fuori dal tempo e dalla logica. Tutto questo perché nei programmi didattici di tutte le associazioni manca quella materia che dovrebbe essere, insieme ad una nuova idea di tecnica della degustazione, la più importante: ECOLOGIA ED EDUCAZIONE AMBIENTALE. Mi chiedo spesso quanti sommeliers, che assumono posture mistiche e sognanti davanti ad un bicchiere di Champagne, sanno che quel celebrato territorio è tra i più devastati al mondo dai trattamenti chimici di una viticoltura irresponsabile e che solo negli ultimi anni una pattuglia di piccoli vignerons, sensibili alla catastrofe ambientale, ha iniziato un encomiabile lavoro di bonifica e di riconversione qualitativa. Questa miscela esplosiva di affarismo cinico e provincialismo squisitamente italiano, ha portato il vino ad uno stadio di omologazione e di appiattimento del gusto dovuto anche a delle didattiche che non consentono all’assaggiatore, professionista o neofita, di entrare nell’anima di quella tale bottiglia e di riconoscerne l’autenticità o la finzione. E’ avvilente assistere a degustazioni monotematiche, su un tale vitigno di un tale terroir,  dove ti trovi ad assaggiare  anche trenta campioni di altrettanti produttori e osservare come chi degusta non si accorge, o finge, di avere a che fare con vini che sono la fotocopia uno dell’altro.Eppure sarebbe così bello vedere le associazioni unirsi almeno per una battaglia importante come quella dell’obbligo di dichiarare gli ingredienti del vino in etichetta. Ma d’altronde perchè molestare il potere  che ci permette di vivacchiare e promuovere per il mondo vini spersonalizzati e senza più storia? Il bivio è là davanti agli occhi di tutti: essere complici del disastro, tacendo e non denunciando la grande truffa dell’agricoltura intensiva o ribellarsi ed aiutare quei produttori, per fortuna sempre più numerosi, che scegliendo di non arricchirsi hanno intrapreso strade di sostenibilità, di valorizzazione del terroir e di cura verso la salute dei propri clienti.

1 Commento a “SOMMELIER, DECLINO O RINASCITA”

  1. Donatella scrive:

    Sono una di quelle che ha preso il diploma di sommelier in poco meno di due anni, e che una volta raggiunta la sospirata soglia è stata perfettamente cosciente di aver solo iniziato un percorso. Credo – purtroppo – che ci sia anche una malafede nelle associazioni, perché i responsabili sanno di buttare allo sbaraglio degli incompetenti, che molto spesso si faranno vanto di un qualche forma di cultura che non possiedono neanche in forma embrionale.

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