Genio senza fine: l’abbracciacio di Caetano e la birra di Petretto
Caetano Veloso ha rivoluzionato la musica popolare brasiliana con il Tropicalismo, ha interiorizzato la grande musica pop e rock angloamericana con cui ha contaminato la lezione della bossa nova, ha brutalizzato la tradizione riconsegnandosi poi al samba con purezza estrema. È stato arrestato e poi esiliato durante il periodo della dittatura nei primi anni ’70 e, durante l’esilio londinese, ha prodotto due dischi meravigliosi uno dei quali, “Transa”, è uno dei migliori album psichedelici di tutti i tempi.
Ha portato il pop a tali livelli di originalità e purezza e la sua personalità a invadere talmente l’immaginario da spingere un altro genio della MPB, Djavan, a coniare il verbo “caetanear” (comportarsi, fare come Caetano; comporre, cantare, sentire ed essere come Caetano) per rappresentare il suo modo unico di stare mondo, di cantarlo e interpretarlo anche solo con un gesto, con una mossa dei fianchi o delle mani.
Nel 1989 dopo decine di dischi e successi, dopo aver delineato un canone, lo disgrega con un lavoro irriconciliato, innovativo e sperimentale come “Estangeiro” con l’avanguardia newyorchese ai suoi piedi e al suo servizio. Poi il successo mondiale dagli Stati Uniti, all’Italia, al Giappone. Avrebbe potuto replicare in eterno lo schema musicale degli anni ’90 amplificando il suo successo senza rischi e senza fatica. Ma avrebbe voluto dire smettere di caetanear. E allora ecco la nuova avventura: la Banda Cê. Caetano più tre ragazzini brasiliani scimmiati di indie rock e capitanati dal fantastico chitarrista e arrangiatore Pedro Sá. Il primo disco del 2006 si chiama appunto Cê ed è sbilenco, rumoroso e bellissimo e il seguito, “Zii e Zie” del 2009, è altrettanto bello o forse più. Caetano Veloso oggi ha settanta anni e chiude questo nuovo ardito capitolo della sua carriera musicale giunta al disco numero 49 con il terzo (ed ultimo, pare) lavoro con la Banda Cê. Si chiama “Abracaco” e non solo è di gran lunga il migliore dei tre ma è un vero e proprio capolavoro. La bellezza di alcuni dei brani, tra i migliori mai incisi dal divo di Santo Amaro, ci dicono di un talento e di una creatività che sembra inesauribile. Sono infatti stile, testi, musica e arrangiamenti, nonché l’esecuzione dei tre “ragazzini” ed in particolare la chitarra di Pedro Sà, a esaltare. Musica Popular Brasileira, funk carioca, distillato di pop, samba obliquo e transmutato, schegge di frevo, forrò e altre musiche regionali brasiliane, lo spirito santo eterno della bossa nova che scende in un’intonazione, in un tocco sul nylon delle corde, in un sussurro più profondo degli altri. Il tutto affogato in e tenuto insieme da un’attitudine indie rock che, se in copertina anziché il suo nome di fosse quello di un gruppo di post adolescenti di Williamsbourg NY, tutta la stampa mondiale dai saputelli di Pichfork a quella nazionale sarebbe unita negli osanna verso la nuova grande cosa e il futuro del rock’n'roll. La title track, “A bossa nova é foda”, “Estou triste”, “Parabéns”, una magia dietro l’altra fino a cuore stesso del disco: gli 8 minuti e 29 secondi di “Un comunista” dedicata a Carlos Marighella, rivoluzionario brasiliano figlio di un immigrato anarchico italiano e di una afro brasiliana autore del “Piccolo manuale per la guerriglia urbana” assassinato a San Paolo dai proiettili del regime militare il 4 novembre 1969 proprio mentre Caetano iniziava il suo esilio. Un brano intimamente ed intensamente politico, esplicito come forse mai Caetano è stato. Una canzone lunghissima che passa in un soffio, un’elegia funebre lenta e dark colorata da tocchi di pandeiro che potrebbe stare in uno degli ultimi dischi di Scott Walker se anziché nel piovoso nord dell’Inghilterra li avesse composti affacciato sul Caribe. La prova, se ne dovessimo sceglie una sola tra le tante contenute in questo sensuale “abbracciacio” di Caetano, di un genio senza fine.
In abbinamento con il genio musicale di Caetano la genialità di Giacomo Petretto, mastro birraio sassarese, e la sua magnifica creazione brassicola misteriosa e seducente fin dal nome: Turkunara. Una “presenza morena” che ha dentro tutta la tradizione e l’innovazione, la scontrosa arroganza e la sensuale dolcezza del disco di Veloso e per la quale non potrei trovare parole migliori di quelle del Maestro Piero Careddu: “TURKUNARA. Un viaggio color caffè lungo e spuma di perla. Un viaggio dentro un capanno di legno in un porto qualsiasi sull’oceano. Un capanno pieno di barche rimessate e attrezzi, vernici, olio di motore . Un capanno che è anche casa del vecchio meccanico con un angolo cottura rugginoso con una pentola che borbotta mandando odori di verza e fagioli che si mescolano agli idrocarburi. Il vento marino che entra dalle pareti malandate e porta iodio e odore di alghe. Tutto si mescola e diventa liquirizia, ambra, camomilla, bucce d’arancia caramellate e torrefazione. Quando la metti al palato ti avvolge con la sua guerra infinita tra note dolci di caffellatte e le punture di amaro dei luppoli. Poi regala alla bocca tutto quello che avevi riconosciuto col naso. Una birra che è poesia dura da bere da sola con se stessi o con la giusta compagnia insieme a bottarga giovane, aringhe affumicate, zuppe di legumi speziate, cioccolato fondente, dolci non troppo dolci!” E con in sottofondo, aggiungo, l’ultimo capolavoro di Caetano Veloso.
25 marzo 2013 alle 13:06
che bella sorpresa !!! bentornato !