nuove considerazioni sulla sensazione di appagamento nel vino e nei distillati

4 maggio 2016  |  di Piero Careddu

Ho già affermato più volte, provocando autocombustioni di molte code di paglia, che  nel mondo dell’ Assaggio Professionale si rende necessario e urgente un cambio di rotta rivoluzionario. Una svolta epocale che consenta di ripristinare i collegamenti ad una realtà, quella del mondo del vino e del beverage, che cambia a velocità folle e senza le adeguate chiavi di lettura. Il delirio autoreferenziale che regna sovrano insieme ad atteggiamenti in molti casi vicini al macchiettismo,  oltre a fare tanto male al vino e  a chi ci lavora con serietà e passione,  rende tutto terribilmente provinciale e decadente. Mi viene in mente, tra i tanti paradossi,  l’uso patologico della ricerca compulsiva  del maggior numero possibile di profumi in un vino o in un distillato. Se durante una serie interminabile di olfazioni  non hai messo insieme almeno una decina di profumi, il più “strani” possibile, sei uno sfigato che non può essere accettato in società. E guai se non riconosci il passion fruit o il mango martinicano in uno di quei terribili vermentini di Gallura (o Gewurtztraminer o Fiano o quello che vi pare), gonfiati di esotismo da lieviti selezionati nella penombra di oscuri laboratori francesi  (alla faccia del territorio!).  Per non parlare dei momenti da Circo  dove certi assaggiatori si esibiscono nel riconoscimento, in assaggio cieco, di annate e melanges di vitigni. Che qualcuno mi spieghi a cosa servono queste prove muscolari di abilità, dal punto di vista professionale. Mi piacerebbe riproporre nelle schede di degustazione delle varie organizzazioni, un nuovo elemento di chiusura del cerchio. La valutazione dell’APPAGAMENTO.  Chiediamoci cosa ci dovrebbe regalare un buon bicchiere di vino se non una generale sensazione di benessere fisico e mentale e, appunto, un forte e deciso senso di appagamento.  Ho parlato di riproporre perché scrissi dell’APPAGAMENTO in un mio articolo apparso sul Blog Taribari il 30 Gennaio del 2008. Mi perdonerete se mi autocito :  “…La valutazione dell’appagamento è un parametro di valutazione organolettica di mia invenzione e, essendo una ricercata esaltazione della soggettività dell’assaggio, è assolutamente e volutamente priva di criteri scientifici e accademici. L’appagamento dato da un cibo o da un vino, nella mia applicazione, è quell’insieme di sensazioni di benessere fisico e mentale conseguenti all’assaggio e capaci di scatenare ulteriori reazioni emotive. Un punteggio di appagamento alto non sempre va di pari passo con dei buoni risultati di un metodo di degustazione ufficiale: per assurdo posso riconoscere la perfezione enologica di un grande vino tramite dei criteri accademici classici ma non necessariamente riconoscere a quel vino un alto punteggio di Appagamento; viceversa un vino benfatto ma umile e senza fronzoli potrebbe ritrovarsi con una valutazione di Appagamento più alta. Questo perché, nelle mie intenzioni, l’obbiettivo è quello di creare un vero e proprio parametro di misurazione delle emozioni del vino che è una grande carenza di tutti gli altri metodi in circolazione. Perciò, lettori e produttori, non date grande importanza all’aspetto quantitativo dei miei giudizi ma, se posso permettermi di suggerire, imparate a usarlo anche voi creandovi dei parametri personali: scoprirete insospettabili frontiere del gusto e della soddisfazione in un bicchiere di vino o in un cibo ben preparato… “. Mi piacerebbe discuterne con le persone di buona volontà che hanno voglia di togliere un po’ di muffa e qualche ragnatela dalle pareti di Mondovino.  Sempre a disposizione.

1 Commento a “nuove considerazioni sulla sensazione di appagamento nel vino e nei distillati”

  1. Fabio Piredda scrive:

    pur non bevendo vino ho letto con massimo interesse e in automatico ho proiettato il concetto sulla birra e devo dire che concordo totalmente con te Piero. Le tecnologie e il “mondo che cambia” hanno reso un pò tutto e un pò tutti “meno umani” e ritengo da tempo che il termometro personale che ognuno di noi ha a disposizione nella misurazione di quel grado di umanità stia nella sua capacità di emozionarsi nelle cose che fa, ivi compreso bere un bicchiere di vino. E da qui il concetto, che tu hai spiegato benissimo, che il rilevamento dell’emozione passa necessariamente per filtri empirici e non è certo figlio di teoria, matematica, equazioni e “accademia”. La valutazione del “buono” e del “cattivo” non può in alcun modo essere prerogativa sempre e solo di calcoli, allineamenti didattici o, peggio ancora, di dinamiche di mercato…

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